Danza, una questione di Pelle

La prima domanda che si fa ad un ballerino o una ballerina è: “A che età hai iniziato a studiare danza classica?” La maggior parte risponderà che ha cominciato a muovere i primi passi in tenera età, 4, 5, 6 e comunque raramente va oltre i dieci anni. Fate la stessa domanda a Marco Pelle, ballerino e coreografo, e la sua risposta sarà che ha iniziato alla “veneranda” età, per un ballerino, di 20 anni. Incredibile o strano che sia, eppure vero.

Abbiamo incontrato Marco all’indomani del suo intervento all’Istituto Italiano di Cultura in occasione della sua performance “Danc ‘in’ the Italia Style” al New York Theatre Ballet il 28 e 29 febbraio scorsi. Marco, 32 anni, originario di Parma, ma vicentino di adozione, vive a lavora a New York dal 1998.
«Ho cominciato a studiare danza – ci dice – quando avevo vent’anni ed in due anni ho recuperato il lavoro di circa dodici anni».

Come mai così tardi?
«Mio padre non voleva e così ho fatto di testa mia appena ho avuto la possibilità. Ricordo che il primo anno nello stesso giorno facevo propedeutica con i bambini di cinque anni, poi il secondo anno ho raggiunto il livello intermedio ed eccellenza due. Ho ballato dalle otto alle dieci ore al giorno per raggiungere questo risultato e ho alternato la mia formazione tra Vicenza e Montecarlo, dove ho studiato all’Academie de Danse Classique “Grace Kelly” con Marika Besobrasova».

E come si sentiva a ballare con bambini così piccoli?
«Certo era strano ballare con loro, ma il bello delle grandi passioni è che non ti fanno sembrare ridicolo».

Come l’hanno presa invece gli insegnanti?
«Mi hanno detto che ero una mente senza un corpo, nel senso che anche se avevo vent’anni, fisicamente ne dimostravo di meno ed in due anni ho messo qualcosa come 25 chili in muscolatura, quando ho iniziato pesavo cinquanta chili».

E a questo punto i suoi genitori, in particolare suo padre?
«È stata una bella battaglia, ma quando mio padre mi ha visto ballare mi ha approvato in pieno. Diciamo che a casa mia eravamo tutti come chiusi in una gabbia. Mio padre da bancario ora è passato a fare il giornalista gastronomico, mio fratello ha cominciato a studiare Giurisprudenza e poi è passato a fare il compositore, io invece avrei dovuto studiare Economia e Commercio, e poi ho scelto Lettere. Mia mamma, poverina, era in mezzo a tutti questi fuochi».

Quando le è venuta la passione per la danza?
«A quattro anni, l’ho ereditata dalla mia nonna materna».

Quando ha deciso di venire a New York?
«Diciamo che in Europa va molto di moda il ballerino “protegé”, nel senso che è la stessa accademia che indirizza i suoi allievi, che delinea la loro carriera, io invece volevo provare con l’America e una volta arrivato qui, dopo poco ho vinto nove borse di studio in tre anni e ho studiato con Merce Cunningham».

Come si è evoluta poi la sua carriera?
«Ho ballato per tre anni e ad un certo punto, per motivi personali, ho abbandonato la danza per qualche mese. Poi ho trovato lavoro a Detroit come ballerino solista e lì ho conosciuto il direttore generale dell’Opera di Detroit, un italo-americano che mi ha aperto le porte dell’opera come coreografo. Era il 2003 e ho curato la coreografia per produzioni come l’Aida di Giuseppe Verdi in Libano al Baalbeck Festival per la famiglia reale di Giordania, la Carmen di Georges Bizet a Parma e un Ballo in maschera di Verdi alla Detroit Opera House».

Cosa vuol dire essere coreografo?
«Io dico sempre che ballerini si diventa e coreografi si nasce. Non esiste una scuola per diventare coreografi, va bene per imparare le tecniche, ma la coreografia è una visione artistica che si ha dentro. Io non ho potuto ballare per tanti anni e ora non appena sento musica la associo subito ad un movimento».

Tempo fa, Alessandra Ferri aveva dichiarato che il balletto è in crisi perchè non esistono più tanti bravi coreografi, lei condivide?
«In realtà non è che non ci sono le idee, piuttosto si sono moltiplicati i linguaggi, si comunica nelle maniere più strane e spesso ne risentono la qualità e la quantità. Poi ci sono anche i periodi storici, a volte ci sono bravi coreografi altre no».

Che differenza c’è tra la coreografia in Italia e negli Stati Uniti?
«Gli italiani sono molto più passionali, aggressivi nel senso di incisivi nei movimenti, mentre gli americani sono più delicati e amano particolarmente i costumi».

E qual è invece la sua particolarità?
«Uso molto le braccia, sono stato influenzato dalla concezione del ballo in Medio-Oriente dove quasi non si usa la parte inferiore del corpo, agli antipodi della nostra».

Come è approdato al New York Theatre Ballet?
«Sono tornato a New York dopo la parentesi di un anno a Detroit e ho fatto un’audizione come ballerino e sono stato preso. Poi hanno avuto bisogno di una coreografia di cinque minuti, io mi sono offerto e sono piaciuto, il resto è storia».

Quali produzioni ha coreografato per loro?
«Ho creato cinque opere inedite e una delle mie coregrafie Solitude è stata portata in Italia nel 2003 dal New York Theatre Ballet. Sempre con il New York Theatre Ballet sono stato in tournée in Italia con Spaces e ci ritornerò questa estate, in agosto».

Il suo prossimo impegno e un eventuale traguardo che vuole raggiungere?
«Prima di andare in tournée in Italia, andrò a Detroit per un mese per la Sonnanbula di Renata Scotto al Michigan Opera Theatre e per quanto riguarda il mio futuro, spero di costruire sempre di più la mia internazionalità e non mi dispiacerebbe lavorare come regista d’opera al Metropolitan Opera Theater».